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Lavorare da casa non è smart working

Aggiornamento: 21 apr 2022

La locuzione smart working da un anno a questa parte è diventata di uso comune praticamente in ogni contesto. Ma siamo sicuri che sia il termine corretto per quello che stiamo facendo?


Vediamo cosa dice il lemma di Wikipedia Italia in proposito:

"Il lavoro agile, noto anche come smart working (uno pseudoanglicismo), è stato definito nell'ordinamento italiano (L 81/2017) come:

«una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell'attività lavorativa.»"


Dunque, ecco servito il principale equivoco: senza precisi vincoli di orario o di luogo.


In sintesi: no, non è smart working, è solo telelavoro, o se vogliamo indugiare con gli anglicismi, è Teleworking, o WFH, acronimo che sta per Working From Home. Lavorare da casa, ma con gli stessi meccanismi di orario e controlli che si avrebbero nel classico posto di lavoro in sede, non è smart working.


Ma procediamo con ordine


In Italia la cultura del lavoro indipendente e smart non ha ancora preso piede per davvero. Negli studi di architettura questo è ancora più plateale, se si pensa che il più delle volte (facciamo 9,5 volte su 10?) le offerte di lavoro implicano che il lavoratore, con la sua bella partita IVA, venga di fatto utilizzato come un dipendente, con tutti gli annessi e connessi del caso. Eppure stiamo parlando di un lavoro per colletti bianchi, ed essendo tali sarebbe realmente possibile, specie con le tecnologie di oggi, svolgere una buona parte del lavoro effettivamente in modalità smart. Questo implica la necessità di un cambiamento radicale nel rapporto fra domanda e offerta. Un professionismo vero, in cui il focus è sugli obiettivi, non sul controllo costante del processo di lavoro, roba da fabbrica di cento anni e ingranaggi di Chaplin.


Poi arriva un affarino piccolo piccolo


La maggior parte dei virus che sono stati studiati hanno un diametro tra 20 e 300 nanometri. Un nanometro (nm) è il miliardesimo di un metro. In termini numerici è 10^−9 metri (dieci-alla-meno-nove).

Altro che i metri, i centimetri e i millimetri con cui siamo abituati a lavorare sul nostro bel Computer Aided Design environment.

Questo affarino architettonicamente trascurabile, in termini di dimensioni, ha portato uno sconquasso che nemmeno un foglio accartocciato nella mente di Frank O. Gehry (ricordate la puntata dei Simpson's?).

Fatalmente la pandemia ha portato con sé la necessità di alcuni (allarme eufemismo) cambiamenti. Su tutti, quello di organizzarsi per collaborare anche a distanza (ehilà, Smart Workers!).

Il risultato è che per tutto o quasi il 2020 si è iniziato a lavorare da casa, con postazioni raffazzonate e appuntamenti virtuali tragicomici. La maggior parte di noi non era preparata a questo shift ed è solo colpa nostra. Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalle videocall su Zoom.


Pearl Jam, Do the Evolution, 1998


Il risultato è che uno strumento potenzialmente virtuoso che poteva innescare nuove opportunità è diventato un mostro a più teste che invece di liberarci ci ha resi ancora più schiavi. Vincolati a orari, chiamate interminabili, connessioni ballerine e via discorrendo.

Stanley Kubrick, The Shining, 1980


Ma non tutto è perduto


È inevitabile che un cambiamento tanto grande abbia portato i tipici problemi di una fase di assestamento. Non cogliere le potenzialità di questo nuovo paradigma sarebbe tuttavia una colossale occasione persa. È plausibile immaginare, in un mondo post-pandemico, che forme ibride di collaborazione siano la norma e che i nativi digitali trovino questa condizione assolutamente naturale. Ciò che questo implica è uno stravolgimento strutturale degli spazi pubblici e privati: il modo in cui utilizziamo le nostre abitazioni, ma anche il modo in cui utilizziamo gli ambiti urbani subirà un cambio di abitudini che genererà nuove domande a cui bisognerà rispondere.

Una cosa su tutte mi pare chiara, non è più procrastinabile l'utilizzo della "seconda realtà", che è quella digitale, che va intesa come un'addizione al mondo classico, non come un'entità ostile. Tipicamente di fronte a cambi tecnologici improvvisamente repentini si vengono a determinare due tifoserie, i luddisti spaventati (i conservatori, prevalentemente i più anziani e i meno strutturati culturalmente, per lo più incolpevoli ma impossibilitati per scelta o struttura ad accettare il nuovo che avanza) e gli entusiasti, o gli integrati, per dirla con la famosa e fortunata formula di Eco. Ovviamente nel mezzo sussistono tutte le infinite sfumature intermedie. Ma ciò che va compreso è che questo cambiamento è qui per restare.

Ecco, visto che tutto è in fase di determinazione chiuderei con delle domante, piuttosto che con delle risposte. In particolare delle domande eminentemente architettoniche.

In che modo cambieranno gli spazi di lavoro? In che modo lo spazio residenziale riuscirà a creare forme salubri che tengano insieme il tempo del lavoro e quello della vita privata?



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